Tra guerra e pace

Il pacifismo che circola da settimane in Italia, come posizione politica virtuosa che si vorrebbe alternativa a quella scellerata praticata dall’Italia insieme ai suoi alleati europei, è retorico, anti-storico, culturalmente ambiguo e politicamente improduttivo, oltre a presentare un fondo di insincerità che l’uso di belle parole e il richiamo a nobili ideali non riesce a velare. Retorico, dunque strumentale e di fatto propagandistico, afferma Alessandro Campi sul Messaggero, perché tale pacifismo gioca su alternative capziose: gli amanti della quiete collettiva da una parte, gli invasati del conflitto dall’altra. Da un lato quelli che pensano a spende- re i soldi pubblici per scuole, sanità e istruzione. Dall’altra quelli che vorrebbero comprarci cannoni e missili. Ma essere uomini di pace non vuol dire guardare solo al benessere degli individui: significa anche chiedersi cosa può garantirlo. Hai voglia a costruire ospedali se poi arriva qualcuno che te li distrugge. Un pacifismo antistorico, cioè irrealistico, nella misura in cui si trascura un fatto obiettivo e determinante. L’allarmismo di governanti, studiosi e osservatori circa il bisogno di rivedere e rafforzare, specie in Europa, l’attuale politica di difesa e sicurezza (questo e non altro significa il riarmo tanto biasimato dai suoi critici) nasce dal cambio radicale di quadro storico-politico che si è determinato a livello globale. Fuori d’Europa, ora anche alle sue porte, è il caos. La politica mondiale, per molti suoi attori, è di nuovo forza e violenza. Giusto desiderare la pace, ma per realizzarla forse conviene attrezzarsi al peggio. Un pacifismo, abbiamo detto, anche culturalmente ambiguo e sfuggente. E’ stata la sua caratteristica per tutto il lungo secondo dopoguerra. Non si capisce come e perché, o forse si capisce benissimo, ma le mobilitazioni pacifiste quasi mai si sono indirizzate verso i veri perturbatori della pace, verso gli eversori conclamati dell’ordine internazionale.


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